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LAMPEDUSA, PROVINCIA DI PARIGI / 1

(Racconto scritto per "Il Caffè")
Due donne. Una bianca, una no. Quella bianca è una giornalista. Quella no dice di chiamarsi Aimée, di avere ventitrè anni e di venire dal Burkina Faso. Un paese senza sbocco sul mare. Landlocked country, si dice in inglese. Un posto difficile da individuare di primo acchito su una carta geografica, di quelli che solo a nominarli fanno puzza di povertà. Aimée lo sa, di venire da un buco del mondo, ma il suo orgoglio si aggrappa a quel Paese dal nome così importante. Ci tiene a spiegarlo alla giornalista, una di quelle quarantenni ragazzine, tradite non tanto da qualche ruga, ma dallo sguardo indurito. La giornalista lavora per un'agenzia di stampa. Occasionalmente cerca di fare qualche inchiesta, anche se venderle a qualcuno è sempre difficile. La maggior parte delle inchieste che scrive le pubblica lei stessa, sul desktop del suo portatile.
Burkina Faso è un nome importante, quindi. Aimée spiega che vuol dire pays des hommes intègres, men of integrity. Lo dice mescolando inglese e francese per dare più forza al concetto che cerca di esprimere. La giornalista si mostra colpita, ma intanto sta provando a ricordare quel è la capitale del Burkina Faso, e nel farlo stringe gli occhi abbagliati dal sole di Lampedusa, come se il nome di quella remota città africana fosse scritto sul mare e sottolineato dalla linea dell'orizzonte. È inutile: non riesce a ricordarlo. Più tardi dovrà andarselo a cercare su qualche atlante.
Intanto Aimée ha ripreso a parlare. Sta dicendo che tutto sommato si considera una ragazza fortunata.
Ha ancora una madre.
Non ha mai conosciuto suo padre, ma è riuscita a portare con sé l'unica foto che ha di lui.
È andata a scuola.
Sa parlare il francese abbastanza bene e conosce un sacco di cose su Parigi.
Per questo ha deciso che andrà in Francia, proprio a Parigi, da certi amici di sua madre che personalmente non conosce.
Aimée racconta di avere avuto molta paura quando si è trovata in mezzo al mare. Il mare che lei prima di allora non aveva mai visto. È come il deserto, dice, solo che lì c'è sabbia, e nel mare invece solo acqua salata. Il mare fa puzza, per di più.
Intanto che racconta, Aimée è seduta in mezzo a centinaia di altre persone e abbraccia un fagottocon dentro le sue cose. Dà le spalle al mare, lo sguardo fisso in direzione dell’entroterra. La giornalista a un certo punto realizza che la ragazza non ha capito di essere finita su un'isola. Non si rende conto che qui il mare è letteralmente dappertutto. Che non esiste un dentro, ma solo un fuori. L’opposto correlato del Burkina Faso: una Sealocked country.
La giornalista ha scelto Aimée in mezzo a centinaia di altre persone perché a prima vista appare bella e fiera. Una giornalista di certe cose deve tenere conto. Ma l’ha scelta pure perché l’aveva vista abbracciare il suo fagotto come se fosse un bambino, anche se si capiva subito che non c'era nessun bambino dentro. Non vuole raccontare la solita storia lacrimevole della madre che fa la traversata assieme al figlio, sopravvivendo alla violenza dei traghettatori, eccetera. La retorica del dolore passa sui giornali più facilmente di quello che scrive lei, che si sforza di asciugare i suoi articoli il più possibile. La giornalista però insiste: vuole raccontare una storia diversa, e che resti. Vuole che la gente si ricordi del nome di Aimée e del paese da cui proviene. Che non pensi a lei genericamente come una che viene dall’Africa, ma proprio come una burkinabè, parola che ha appena imparato. Vuole documentarsi e scrivere il nome della capitale, anche il nome del villaggio da cui proviene la ragazza. Vuole trasformare Aimée in una persona, riscattandola dal destino di essere una maschera nera e triste in mezzo a centinaia di altre maschere altrettanto nere e altrettanto tristi, distinguibili solo all’ingrosso, per le gradazioni di pigmentazione della pelle.
Le chiede se può farle una foto col cellulare. Aimée non è sicura: sa di essere sporca e stanca e sciupata. Ma alla fine la vanità prevale: aggiusta i capelli e mette assieme un sorriso abbastanza credibile. In una maniera del tutto istintiva anche lei detesta la retorica del dolore.
La giornalista salva la foto sul cellulare e poi con la scusa della foto si collega a Internet, perché la tormenta il fatto di non ricordare la capitale del Burkina Faso. Le viene in mente un gioco che faceva con suo fratello, quando erano piccoli, interrogandosi a vicenda sulle capitali del mondo. Poi, quando finalmente la pagina si carica, scopre che non poteva ricordarselo: il Burkina Faso si chiama così solo dal 1984, quando lei da un pezzo aveva smesso di essere bambina. Non le funzionano più neanche le memorie d’infanzia.
Il nome della capitale è impervio, con una serie di vocali che sembrano cambiare posizione a seconda dei siti di informazione che lo riportano. Oudagodou, Ougadogou, Ougadougou, Ouagadougou. Mentre cerca di fare una media ponderata delle diverse versioni, Aimée le chiede come si chiama esattamente il posto in cui si trovano. La giornalista le dice il nome in francese e poi di nuovo in italiano, ma con l'accento sull’ultima sillaba. Proprio di fronte all'Africa, aggiunge: ma questo Aimée già lo immaginava. Ci ha messo quasi un anno ad attraversare Niger e Libia. Undici mesi. Magari non conosce bene la geografia, ma la strada che ha percorso non la dimenticherà più.
Racconta che uno zio, una specie di zio, le ha dato un po’ di soldi per il viaggio, e poi lei ha racimolato il resto vendendo tutto quello che non le serviva e qualcosa anche di quello che forse le sarebbe servito. Sta andando a Parigi da certi amici di sua madre, questo lo ripete spesso. Non li ha mai visti, conserva il loro nome su un pezzo di carta che tiene nascosto in fondo al suo fagotto. Per precauzione l’ha pure imparato a memoria, indirizzo compreso. Si propone anche di recitarglielo.
Ad Aimée piace ricordare le cose a memoria. Snocciola con un certo orgoglio una litania di luoghi che si è trovata ad attraversare nel corso del viaggio. Ne viene fuori una specie di geografia onirica, dove ogni tappa è legata a un nome di persona. Quello che guidava il camion veniva dal Niger e a prima vista asembrava gentile. Non sa quanto ci hanno messo, da Ouagadougou fino ad Arlit. Arlit era la città di cui le aveva parlato il suo quasi zio. Da Arlit poteva andare in Algeria, e da lì arrivare in Francia era più facile. Ma il camion ad Arlit non ha fatto scendere nessuno, nemmeno si è fermato. Quando alla sosta successiva lei ha chiesto all'autista, quello le ha dato una spinta e l'ha messa di nuovo a sedere. Lì ha capito che non era poi tanto gentile, quell’autista. E lì ha sentito pure per la prima volta pronunciare un nome: Dirkou. Un nome che per lei in quel momento non significava niente. Nemmeno avrebbe saputo dire se si trattava di un luogo, di una città o del nome di qualche personalità. Dirkou.
(Parte prima di due)

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Roberto Alajmo | 02/07/2011

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