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SANTIAGO CALATRAVA: LA DANZA IMMOBILE

Il bello dell’architettura, rispetto agli altri generi artistici, è che alla fine risulta abitabile. Uno può ammirare finché vuole la Vergine delle Rocce, ma per capire il talento di Leonardo non c’è niente di meglio della vertigine che si prova salendo e scendendo la doppia rampa del castello di Chambord. Difficile immaginare di potersi smarrire trovandosi su una scala: ma può succedere, se questa semplice scala è opera di un genio. In questo senso, Santiago Calatrava, con la sua predilezione per i ponti, è l’architetto più moderno, laico e democratico della nostra epoca. Perché moderno, laico e democratico è il concetto stesso di ponte, struttura abitabile e non privatizzabile per eccellenza. Sul ponte si passa, prima o poi passano tutti. Si attraversa, lo si vive in continuazione. Un ponte serve a unire sponde differenti, e anche questa è metafora di modernità: dio solo sa quanto ci sia bisogno di ponti. In una chiesa possono ugualmente entrare tutti, fedeli e non, ma lo scopo di un edificio di culto è, appunto, l’esercizio della religione. Il ponte invece rappresenta il massimo simbolo architettonico della democrazia. Ha una sua utilità anti-ideologica. Anzi, nasce sulla base di un’unica idea, quella di unire idee diverse. Il ponte è sintesi, Calatrava è artista di sintesi. Sfugge ai tentativi di incasellarlo nella schematizzazione classica-dicotomica fra Gotico e Barocco. Perché lui è Gotico e Barocco allo stesso tempo. E anche classico, e contemporaneo, e statico, e dinamico, e solenne, e ironico e un sacco di altre cose all’apparenza incompatibili fra loro. Unico, personalissimo è il suo modo di adoperare acciaio e cemento per rendere stabile ciò che pare impossibile rimanga all’impiedi. I suoi edifici danzano pur restando perfettamente immobili. Le sue forme ondeggiano, si inarcano, impennano, scorrono, galleggiano, si avvitano su se stesse facendosi beffa delle leggi di staticità. In questo senso Calatrava è anche un po’ prestigiatore. Nelle sue opere il trucco c’è ma non si vede. Bisogna ammettere che c’è anche un minimo compiacimento, nelle sue realizzazioni. Gli piace creare scalpore nel pubblico: ma è l’unica concessione alla pura esteriorità, da ascrivere al carattere giocoso del suo temperamento. Le strutture che immagina e progetta paiono giganteschi scheletri di dinosauro praticabili: vertebre, costole, orbite vuote, pezzi di cranio. E dentro ognuno di questi pezzi viene voglia di entrare. In certi casi addirittura ci si è dentro anche quando si pensa di esserne fuori. I dinosauri di Calatrava inghiottono e ruminano migliaia di persone ogni giorno ai quattro angoli del mondo, alla stazione do Oriente di Lisbona così come alla Cittadella della Scienza di Valencia. L’architetto catalano è la personalità che in questi anni meglio risponde alla magari banale definizione di realizzatore di sculture abitabili. Gli amministratori delle maggiori città del mondo si sforzano di commissionargli qualcosa: Gerusalemme, Valencia, Atene, Barcellona. Le città del Mediterraneo innanzi tutto, in omaggio all’ispirazione primaria di Calatrava; ma anche Dallas, Berlino, Buenos Aires, Dublino e tante altre, a conferma dell’universalità del suo genio. In Italia meno, molto meno di quanto si potrebbe. Per tutte le caratteristiche finora accennate, è significativo che nel cuore di Venezia stia sorgendo proprio un ponte disegnato da Calatrava: perché un ponte è simbolo di mobilità persino in una città immobile come Venezia. Naturalmente questa considerazione non esimerà dalle polemiche, che in casi del genere noi italiani non ci facciamo mai mancare. Solo da noi i centri storici risultano intoccabili, perpetuamente uguali a se stessi, museificati fino a sembrare l’ossario di quel che furono. Certo, in un microcosmo perfetto come Venezia un ponte “moderno” pare una bestemmia. Se ne può discutere, se ne è discusso e se ne discuterà all’infinito, ma già questo discutere è segno di vitalità. A prescindere dalla sua riuscita estetica, il ponte di Calatrava è un sobbalzo nell’encefalocardiogramma di una città che fino a ieri poteva sembrare in coma irreversibile.

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Roberto Alajmo | 14/03/2008

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