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E' stato il figlio


MALEDETTI ARCHITETTI

Circolano strane storie, a proposito di architetti. C’è sempre un’amica stremata dalla ristrutturazione del proprio appartamento disposta a dichiarare: un architetto fa nella tua casa ciò che non farebbe mai nella sua. La battuta non è farina del suo sacco, perché sugli architetti circola una quantità di storielle appena inferiore a quelle sui carabinieri. Del resto, esiste persino un manuale di sopravvivenza intitolato Gli architetti…dovrebbero ammazzarli da piccoli. A scriverlo è stato proprio un architetto, Matteo Clemente. Storielle che confinano con le barzellette e si trasformano spesso in leggende metropolitane. Per non parlare dei luoghi comuni. Nella comune concezione, i contrasti fra committente e architetto per una semplice questione di arredamento sono metafora pura e semplice della lotta del Bene contro il Male. Il problema è che per un architetto una casa rappresenta il luogo della sperimentazione, la tela bianca su cui dipingere. Ecco, forse è tutto qui: la tela bianca su cui dipingere, a un architetto costa parecchio. Per non parlare di quanto costa al committente. Uno scrittore ha bisogno in fondo solo di carta e penna, uno scultore di un blocco di marmo. Tutta roba che si trova a buon mercato. Un architetto no. Un architetto ha bisogno di un terreno su cui costruire, di materiali, di maestranze riottose. Tutta roba che costa. Da qui nasce il pregiudizio generalizzato: l’architetto dimentica di disegnare le scale per salire al piano di sopra. L’architetto non ha idea di dove si trovino gli scarichi, di dove passino i fili della corrente. Fino al principe dei luoghi comuni: l’architetto se ne frega del fatto che in una casa le persone ci dovranno abitare. L’immagine dell’architetto è quella di un artista che vola alto, senza prestare attenzione alle quisquilie. Salvo che a pagare le sregolatezze del suo genio è sempre il committente. L’architetto è una curiosa figura professionale. Un centauro, un ircocervo, un minotauro, creatura fantastica per metà artista e per metà faccendiere, in grado di muoversi fra le raffinatezza stilistiche di Le Corbusier e i meandri dell’Ufficio Urbanistica. Pericolosamente in bilico tra l’area umanistica e quella scientifica. Troppo artista per essere un tecnico e troppo tecnico per essere artista. Lo diceva persino Vitruvio, già nel primo secolo a.C., nel De architectura: “…Il vero architetto dovrà possedere doti intellettuali e attitudine all’apprendere… Sia perciò competente nel campo delle lettere e soprattutto della storia, abile nel disegno e buon matematico; curi la sua preparazione filosofica e musicale; non ignori la medicina, conosca la giurisprudenza e le leggi che regolano i moti degli astri...”. Come dire: tutto e il contrario di tutto. E infatti Vitruvio, che era architetto, è costretto ad aggiungere: “Non credo che possano definirsi sin da subito a buon diritto architetti, se non coloro che siano giunti alla vetta suprema dell'architettura dopo esser stati nutriti della conoscenza della maggior parte della letteratura e dell'arte.” Un ritratto ambizioso, che però sembra rimandare all’ennesima battuta in circolazione, secondo cui l’architetto possiede poche nozioni su molti argomenti, finendo quindi per non sapere niente di tutto. A questo quadro generale va aggiunto il carico del desolante contesto italiano. Nel nostro paese, se tuo figlio viene a dirti che da grande vuole fare l’architetto, l’impatto emotivo è devastante. Come se ti avesse rivelato i gusti sessuali che un padre più teme. Peggio ancora, da un punto di vista economico: come se avesse deciso di aprire una pellicceria all’equatore. Per un padre italiano è difficile capire il prestigio sociale di cui un architetto gode a Barcellona o a Berlino, dove un figlio architetto equivale a (e guadagna quanto) un figlio notaio dalle nostre parti. Il problema è che in Italia l’unico simbolo di modernità architettonica e urbanistica è rappresentato dai gazebo a forma di pagoda che pullulano in ogni città. Quando un giorno i manuali di storia dell’arte racconteranno cosa ha prodotto il paese di Brunelleschi e Borromini negli anni compresi fra il novecento e il duemila, la risposta sarà questa: i gazebo a pagoda. La progressiva scomparsa della committenza privata ha portato la gran massa degli architetti italiani a cercare sfogo professionale nella committenza pubblica, accentuando il carattere mondano-relazionale della professione. Oggi l’architetto italiano è il public relation man di se stesso, un uomo di mondo che sa cavarsela, che conosce i meccanismi imperscrutabili degli appalti pubblici. L’alternativa è la disoccupazione o la sottooccupazione. Sono un piccolo esercito gli architetti costretti a emigrare all’estero, o a ripiegare su lavori meno impalpabili di quello per cui si erano laureati. Negli ultimi anni sono diventati insegnanti (precari) di storia dell’arte e di disegno tecnico, aggiungendo frustrazione a frustrazione. In Italia, gli architetti sono una razza ancora nominalmente numerosissima, ma destinata all’estinzione per estenuazione. In passato l’antagonista dell’architetto era l’ingegnere, il cugino ricco di un tempo felice, quando la ricchezza era distribuita ancora sulla base dei meriti e del curriculum di studi. Oggi, il nemico naturale dell’architetto (e dell’architettura) è il geometra. È il geometra ad aver reso invivibile l’habitat naturale di chi dovrebbe progettare case e città. Il geometra rappresenta per l’architettura ciò che i pesci siluro sono per i fiumi del nord: fattore di sterminio della popolazione ittica preesistente. Per costruire una casa in Italia la legge non prescrive un architetto. Basta un geometra. Un geometra è perfetto. Un geometra costa meno, non ha pretese artistiche e si limita a svolgere il compito assegnato senza stravaganze né sperimentalismi. Per i risultati, basta guardare quel che sono diventate le nostre città. Se ne ricava un’ultima allegoria: l’architetto è come la democrazia. Il peggior sistema di governo possibile, a esclusione di tutti gli altri.

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Roberto Alajmo | 11/07/2008

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