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NEL VENTRE DELLA BALENA (SECONDA PARTE)

... Siamo entrati, mi ha fatto strada nei primi meandri. La luce naturale della mattina era più che sufficiente per vedere che ci trovavamo sul palcoscenico. Era completamente spoglio, salvo qualche macchina teatrale rimasta lì come il rudere di una civiltà scomparsa. Sapevo che l’avrei trovato grande, il palcoscenico. Ma in realtà era veramente enorme, molto più di quanto potessi immaginare. Soprattutto se messo in relazione con la sala, che aveva preservato i suoi stucchi e ori, mutilata solo dei velluti, senza nemmeno il diaframma del sipario o di una porta tagliafuoco. La sala era il corpo, e il palcoscenico appariva come una testa smisurata, persino deforme, spaventosa. In quel momento ero come Pinocchio, inghiottito dal mostro marino. Spaventato, ma con un mondo tutto da scoprire a portata di mano. L’amico che mi aveva accompagnato si era messo a osservare le mie reazioni, e dopo pochi minuti ha avuto la discrezione di inventarsi un pretesto per lasciarmi solo. Era un grande dono che mi aveva fatto portandomi fin dentro, e uno ancora più grande me lo faceva lasciandomi alla mia solitudine. Pochi passi per piazzarmi proprio al centro del proscenio. E una volta lì, naturalmente, ho fatto la cosa più banale: ho provato a immaginare il pubblico, le scene, i costumi, soprattutto la musica che in quello spazio era risuonata, e gli applausi che l’avevano seguita. Il luogo era di enorme suggestione. Ero nel ventre di un teatro chiuso, una situazione evocativa in sé. Ma, sorpresa: non ci riuscivo. Non riuscivo a evocare un bel niente. A un certo punto ho perfino provato a canticchiare un’aria d’opera. Un po’ per provare l’acustica, un po’ per vedere l’effetto che mi faceva cantare in un vero teatro. Ma ho smesso subito, perché ho capito all’istante che la mia voce, in quel posto e in quel momento, era sbagliata. Ho fatto silenzio. E ho capito che il silenzio, invece, era giusto. Giusto, sbagliato: mi dispiace non poterlo dire in altro modo, più accurato. Ma era proprio così: la mia voce era sbagliata, e il silenzio, invece, giusto. Ho fatto in modo che il silenzio si prolungasse a lungo. Abbastanza a lungo. Dopodiché, l’ho sentito. Sono riuscito a sentirlo. Prima mi pareva solo un’impressione, ma poi il silenzio si è fatto più spesso. E nel profondo del silenzio, l’ho sentito nettamente e precisamente. Il respiro. Il respiro del teatro. Questa è stata la cosa che ho imparato quel giorno. Un teatro respira. Anche quando è chiuso, anche quando è chiuso da parecchio tempo, anche quando per parecchio tempo è destinato a rimanere chiuso: continua a respirare.

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Roberto Alajmo | 05/03/2008

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