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I POMERIGGI AL MOLO NORD

Quando eravamo piccoli, subito dopo pranzo, i posti dove ci portava mio nonno si riducevano sostanzialmente a due. Il primo era villa Giulia, dove risiedeva l'attrazione di Ciccio, il leone che pochi anni dopo avrebbe sbranato un ragazzo entrato nella sua gabbia per fare lo spiritoso. E il secondo era il porto. Mentre a villa Giulia mio nonno era sempre dovizioso di spiegazioni al limite della logorrea, al porto invece tendeva a restare taciturno. Noi, per dirla tutta, spingevamo nettamente per la passeggiata a Villa Giulia, che ci sembrava ed era un posto più adatto ai bambini. L'idea stessa di porto, a tutte le latitudini del mondo evoca atmosfere sordide, traffici, bassifondi, depravazione. Che c'entravamo noi? Ma in maniera del tutto intuitivo-infantile capivamo che almeno ogni tanto al porto bisognava andarci per forza. Il nonno ci teneva. In quei casi non era lui che accompagnava noi: eravamo noi che accompagnavamo lui. Per il nonno, il porto rappresentava il luogo della memoria. Dopo avere a lungo lavorato presso una ditta di spedizioni navali, prima di andare in pensione aveva fatto in tempo a veder tramontare il sogno del Grande Scalo Marittimo, così come si era delineato dall'età dei Florio in poi. Noi non lo sapevamo, ma forse addirittura il suo pensionamento era stato un surrogato di licenziamento. Le arance siciliane avevano smesso di viaggiare per mare - anzi: stavano cominciando a non viaggiare per niente -, e il settore aveva necessità di ridurre il personale in eccesso, come si suol dire. Al porto il nonno aveva ancora diversi amici. Si fermava a parlare con loro lasciandoci due passi indietro, ma non tanto da impedire di ascoltare i discorsi che facevano. Mio nonno diceva spesso: - Ti ricordi…? Oppure: - Che fine a fatto il tizio? Si informava con competenza delle navi che attraccavano e di quelle che erano appena salpate. Si teneva aggiornato sullo stato di avanzamento della crisi. Ma erano conversazioni che non decollavano mai, perché i suoi interlocutori stavano lavorando e avevano da lavorare, per cui lo liquidavano in fretta. Non che fossero scortesi, assolutamente no. Però lasciavano trascorrere qualche secondo fra la domanda e la risposta, per cui dopo un po' si capiva che non era il caso di insistere. I tempi di mio nonno non coincidevano coi loro. Tempi nella doppia accezione: tempi trascorsi e ritmi di vita. Esaurito il giro di amici e colleghi, al porto restavano da fare delle lunghe passeggiate sulle banchine, sostando ogni tanto in attesa che qualche cefalo abboccasse alla canna dei pescatori. Alcuni di questi erano ex colleghi di mio nonno, che adoperavano la pesca allo stesso scopo per cui lui adoperava noi. Cefali o nipoti, eravamo comunque una scusa per tornare in quel posto. Ma coi pescatori il nonno legava poco. Non gli piacevano perché con la loro presenza gli ricordavano il motivo per cui lui stesso si trovava lì. Gli somigliavano, e tanto bastava a disprezzarne la fannullaggine. Li chiamava pescatori di topi, perché sosteneva che solo topi potevano abboccare in quelle acque stremate. Io posso dire, in verità, di non aver mai visto abboccare niente: né cefali né topi. Tenendosi alla larga da impiegati e pescatori, il pomeriggio proseguiva aggirandosi fra le navi in mezzo al silenzio. Forse al mattino c'era più gente, non so. Certo, di pomeriggio noi eravamo fra i pochi esseri umani a vista d'occhio. A quell'ora il porto si trasformava in una sequenza di linee e volumi, alcuni effettivamente mastodontici, impressionanti per gli occhi di un bambino. Spaventosi proprio come l'acqua nera, ferma e oleosa: dove cadere e morire di schifo doveva essere tutt'uno. A quelle immagini inquietanti mio nonno ci affidava senza più spiegazioni, assorto com'era nei suoi pensieri. Oggi, col senno di poi, comprendo meglio quei silenzi e il rodimento che ci stava dietro. Ma anche allora, credo di ricordare, noi bambini rispettavamo il silenzio senza turbarlo di soverchi capricci. Al porto si stava fin quando si doveva stare, e poi si andava via, sempre senza pronunciare parola. Ancora in questi anni - quando mi capita di andare al porto, e spesso sono con mio figlio - cerco di limitare al minimo le parole, lasciando che sia quella sorta di organismo vivente a parlare. Non so se ci riesco, perché in mezzo c'è almeno un salto generazionale: ma mi piacerebbe trasmettere un po' del senso di quel silenzio lì.

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Roberto Alajmo | 01/07/2007

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