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il forum di Roberto Alajmo, scrittore



E' stato il figlio


EMMA E IO

(Dal Corriere della Sera)
Sarà stato nei primi anni Duemila. Mi chiama Francesco Piccolo:
- C’è una ragazza di Palermo che fa teatro, vive a Roma ma vorrebbe tornare in Sicilia.
Io rispondo come da copione:
- Mischina!
Che non è la trascrizione dialettale di Meschina, bensì quella di Miskin, parola che in arabo vuol dire qualcosa fra poveraccio e sventurato.
- …Comunque dai, passale il mio numero.
Ci siamo conosciuti così, con Emma Dante. Allora lei era una giovane attrice dalla formazione classica, che adesso le vicissitudini della vita riportavano al punto di partenza. Palermo era, in quegli anni, una specie di deserto dell’intelligenza prima ancora che della cultura. Se pure al Comune doveva esserci un assessore delegato al ramo, nessuno ne ricordava il nome, tanto era superfluo. Io stesso orbitavo lontanissimo dalle parti del potere, per cui incontrarla era, oltre che una cortesia nei confronti dell’amico che me lo chiedeva, solo un modo per provare a limitare i danni per la vita di quella poveraccia/sventurata. Né lei si aspettava da me altro che qualche consiglio su come muoversi in città.
Ci incontrammo in una rosticceria, per mangiare assieme un boccone. Lei mi raccontò il suo percorso, accennando ad alcune bastonate che l’esistenza le aveva riservato nell’ultimo periodo, e che un po’ la spingevano a tornare. C’era tuttavia anche un desiderio attivo di venire a vivere in Sicilia, le cui motivazioni forse lei stessa non riusciva ancora a mettere a fuoco. Io la ascoltai come i medici fanno coi pazienti cui il destino riserva poche speranze, poi le indicai l’arancina al burro che stava mangiando e le dissi:
- Vedi questa? È il meglio che Palermo possa offrirti. Goditela, e appena puoi torna a Roma.
Quel che poi Emma ha fatto è stato l’esatto contrario: è andata incontro al suo destino trasformando tutti i difetti di Palermo nel carburante che serviva per le sue pratiche teatrali. Ammetto quindi di non averne capito niente. Posso solo invocare l’attenuante dell’inconsapevolezza. Non sapevo, allora, che Emma Dante aveva bisogno proprio del deserto, per riuscire a crescere. Non sapevo che la sua idea di teatro era una specie di cactus, pianta che riesce a fare a meno quasi di tutto, acqua compresa. Un teatro fatto di pochissime cose, capace di distillare quel che serve proprio dall’avarizia dall’ambiente circostante. Senza manutenzione e senza la cura di nessun giardiniere. In effetti, nel deserto palermitano di quegli anni è venuto fuori un manipolo di teatranti (mettiamo nello stesso mazzo anche Vincenzo Pirrotta, Davide Enia, Lina Prosa, ciascuno nella propria diversità) capaci di fare arte con poco o niente, temprati proprio dall’assenza di pubbliche sovvenzioni.
Oltre alle notevoli capacità di adattamento, del cactus Emma Dante possiede anche qualche spina. Sul suo carattere si favoleggia nell’ambiente, dove è molto amata ma anche da qualcuno ferocemente detestata. Il suo temperamento viene strumentalizzato dai detrattori che la dipingono come una specie di Crudelia De Mon, con i suoi attori nel ruolo dei cuccioli di dalmata nella Carica dei 101. In realtà chi la conosce sa che dietro qualche sua impennata c’è il rigore sul lavoro, la disciplina che impone innanzi tutto a se stessa. E poi, certo, le ferite che si porta dietro, senza le quali probabilmente il suo teatro non potrebbe esistere. Emma Dante è un gatto ferito, che graffia chi le si avvicina, magari anche con le migliori intenzioni. Bisogna avere la pazienza di affrontare i suoi graffi di diffidenza per riuscire a conquistarne la fiducia. Ma una volta ottenuta questa, si scopre che anche la persona merita l’affetto che già si deve all’artista.
Da quel primo incontro in rosticceria sono trascorsi più o meno vent’anni, e vent’anni non passano mai invano. La differenza saliente è che adesso sia Emma che io siamo passati dall’altra parte, abitiamo più o meno dalle parti del Potere. Lei è l’artista principale ospite del teatro che io dirigo, il Biondo, lo Stabile di Palermo. Il che comporta alcuni rischi, uno soprattutto: quello di uccidere il cactus innaffiandolo troppo. È un’alchimia difficile, per me e per lei, che consiste nel cercare di non affogare il suo talento con la troppa acqua che deriva dal fatto di lavorare per un teatro Stabile. Non sono io a dover dire che faccio la mia parte. Di sicuro Emma ha trovato modo di adattarsi alle nuove condizioni climatiche senza travisare il suo talento francescano. Lo ha fatto a modo suo, occupando con pieno impegno il suo spazio creativo dentro al Biondo, ma riservandosi pure il vecchio scantinato della Vicarìa, lo spazio alla periferia di Palermo dove sono nati alcuni dei suoi spettacoli storici, e che non ha mai dismesso. Dopo aver fatto il giro del mondo, ogni volta torna a Palermo, al Biondo, che è casa sua. Ma anche alla Vicarìa, che è la sua casa natale, dove può restare da sola assieme alle sue idee, con la leggerezza che le serve per continuare ad assorbire acqua dall’atmosfera.
Abitualmente fra noi intercorrono poche parole, non c’è bisogno di argomentare certe sfumature. Non ci vediamo nemmeno molto. Ma quando non viene al Biondo io so che lei è lì, alla Vicarìa, nel posto dove le idee crescono in assenza d’acqua. E so pure che se volessi potrei raggiungerla in qualsiasi momento. Basta così.

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Roberto Alajmo | 14/05/2017

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