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REMIX: LACRIME IN LABORATORIO

Cerco invano di spiegare a mio figlio il valore terapeutico del pianto al cinema. Al cinema e all’Opera, per quanto mi riguarda.
Mi preoccupa la sua apparente incapacità di piangere per una finzione: ma forse per lasciarsi andare alle lacrime in laboratorio bisogna aver smesso di credersi immortali. E a quattordici anni è prematuro.
Vediamo assieme Big Fish e alla fine è lui che deve consolare me. E ancora Il Postino, Butch Cassidy, Nuovo Cinema Paradiso, Cria Cuervos e tanti altri. Poi c’è l’Opera: "Verranno a te sull’aere" dalla Lucia di Lammermoor per me è sempre un rubinetto che si apre. Lo stesso per la Traviata, quando Violetta decide suo malgrado di lasciare quel patatone del suo fidanzato. Lei quasi grida per la disperazione ("Perché tu m’ami, Alfredo, non è vero?"), e lui non sa perché, anzi è talmente tonto da non capire nemmeno che si tratta di un addio.
La morte spavalda di Carmen. La felicità inconsapevole con cui Cavaradossi va incontro alla sua vera finta fucilazione. Una volta ho pianto persino per l’ouverture delle Nozze di Figaro, ma erano lacrime di felicità.
Ciò che mio figlio nella sua incoscienza non può capire, è che il dolore esiste veramente fuori dallo schermo e dal palcoscenico. E nel pianto per finzione c’è una dose omeopatica di espiazione che finisce per risultare fortificante.
La grande illusione è che ogni lacrima sparsa al cinema o all’Opera sia una lacrima in meno nella vita reale.

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Roberto Alajmo | 13/01/2014

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