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il forum di Roberto Alajmo, scrittore





HALIMA E GLI ALTRI

Halima è speciale, forse addirittura specialissima. Speriamo almeno che sia maggiorenne, perché altrimenti si salvi chi può. Nera, capelli lunghi neri, labbra carnose, zigomi alteri. L'aria di una che lo sviluppo l'ha fatto da poco, ma l'ha fatto fino in fondo. Un maschio sciovinista politicamente scorretto potrebbe dire: peccato che sia musulmana. Parecchio musulmana. Musulmana quasi all'improvviso, fra l'altro. Non che non lo fosse anche in precedenza: suo padre era una figura eminente nella comunità islamica del diciannovesimo arrondissement, quartiere parigino popolato soprattutto da immigrati di seconda o terza generazione. Ma fino a un certo giorno Halima era stata una ragazza indistinguibile dalle sue coetanee, se non per il fatto di essere molto bella e molto alta. Poi suo padre era morto e lei era entrata in una specie di incubazione. Usciva con le amiche, ma rimaneva scontrosa, senza dare confidenza ai maschietti che la stringevano d'assedio. Dopo un anno, a ottobre, approfittò di uno spazio autogestito del suo liceo per portare in classe alcuni opuscoli verdi. Assieme alle amiche si misero a commentarli, soffermandosi soprattutto su un passaggio nel quale si incitava a uccidere tutti i miscredenti. Uccidere, nientemeno! - dissero alcune sue compagne - Ma che colpa hanno? Ci sono nati, loro, miscredenti. Halima scuoteva la testa, non si sentiva capita neppure dalle sue compagne più fidate. Poi, a novembre, dopo un periodo di vacanza, decise di dare una svolta alla sua vita. Avrebbe indossato il velo. Anche a scuola? Anche a scuola. Le amiche glielo chiedevano perché ora esiste una legge che mette nero su bianco le regole di applicazione della laicità, costituzionalmente riconosciuta, dello Stato francese. Esiste uno studio della cosiddetta commissione Stasi, sulla base del quale l'Assemblea Nazionale ha poi legiferato stabilendo la proibizione di portare all'interno delle aule segni di distinzione come il velo "comunque lo si voglia chiamare" e la croce "se di dimensioni manifestamente eccessive". D'ora in poi niente kippah, niente stelle di David, niente tarbush, niente basette a cavaturacciolo. Inoltre, specifica la circolare, gli alunni non possono essere esentati dal seguire le lezioni nei giorni che settimanalmente vengono considerati di festa per le singole religioni. Niente venerdì, per i musulmani. Niente sabato, per gli ebrei; visto pure che il sabato confina con la domenica, e in questo modo l'osservanza tende troppo a somigliare a un lungo week-end. Il principio è presto spiegato: la Francia è una democrazia che tutela tutte le religioni non ammettendo la prevalenza di nessuna. Nella scuola pubblica, in particolare, tutti gli allievi devono essere indistinguibili per razza, ideologia e religione. L'approvazione della legge - e prima ancora, il suo iter in commissione - è stato oggetto di fierissime polemiche. Due sorelle che continuavano a portare il velo, nella zona di Aubervilliers, sono state sottoposte a un procedimento di disciplina e, visto che insistevano, infine espulse dalla scuola. Halima ha seguito con passione la vicenda delle due sorelle di Aubervilliers. Ne ha fatto un caso personale e un oggetto di discussione con le compagne: non è un paese libero, questo? Allora perché nella scuola di un paese libero non è possibile esprimere la propria identità religiosa? Se le compagne parevano appassionarsi poco all'argomento, Halima le allontanava. È una scrematura delle amicizie frequente anche se spesso traumatica, specialmente a diciott'anni. La rottura dei rapporti feriva le compagne perché nel frattempo Halima era diventata un capo, un punto di riferimento per tutte le ragazze musulmane della scuola.All'interno della cerchia urbana di Parigi ci sono settantotto moschee, fra grandi e piccole. A queste bisogna aggiungere tutte le altre che si trovano nei dintorni, impossibili da contare. L'immigrazione parigina è andata sedimentandosi poco a poco, a macchia di leopardo, proseguendo soprattutto dal centro verso la periferia, da sud verso nord. All'esterno del boulevard periphérique si distinguono sei fasce urbane. Grossomodo funziona che più ti allontani dal centro, più sei povero. In prima fascia, la banlieue dell'immigrazione araba si trova a nord, a Saint Denis, e poi procedendo man mano verso l'esterno a Genevelliers, Sarcelles, Argenteuil. Quelli della zona Crimée, nel diciannovesimo, o della cosiddetta Goutte d'or, nel diciottesimo, dall'alto del loro consolidamento sociale considerano quelli di Saint Denis dei poveracci. Quelli di Saint Denis disprezzano quelli di Genevelliers, che a loro volta disprezzano quelli di Sarcelles, che a loro volta disprezzano quelli di Argenteuil, i quali non sanno con chi prendersela se non, in generale, col paese che li ospita ma allo stesso tempo li tiene sull'uscio. Nella Goutte d'or in tempi recenti sono stati fatti alcuni interventi urbani di qualità, giardinetti e case popolari. È diventato un quartiere francese al cento per cento. Ma in rue Polonceau, che è orientata verso la Mecca, alla stessa ora ogni pomeriggio il traffico si ferma perché tutti si inginocchiano a pregare. In rue Myrha una moschea al neon verdolino convive a poche decine di metri con un notevole repertorio di puttane. Il Marché Dejan, con le sue macellerie di stretta ottemperanza islamica, al sabato si trasforma in una succursale di Abidjan. A Barbès, davanti ai grandi magazzini Tati – le plus bas prix – stazionano maschi neri monumentali senza nessuna occupazione apparente. Sono uguali ai maschi nullafacenti che bivaccano nelle piazze di tutti i sud del mondo; ma qui, in un contesto metropolitano, perdono ogni connotazione folkloristica e diventano solo preoccupanti. Sarà per questo che poco distante, a Château Rouge, ci sono quattro camionette della polizia. La scuola di Halima è il liceo Turgot, che si trova nel terzo arrondissement. Abbastanza centrale, quindi, ma con la particolarità di trovarsi esattamente alla confluenza fra due fiumi di immigrazione. Nella mappa di Parigi i numeri degli arrondissement vanno a spirale, dal centro fino alla periferia, proprio come su un guscio di lumaca. 18, 19 e 20, nel quadrante di nordest, sono quartieri misti. Da lì i figli degli immigrati sono scesi idealmente lungo la famosa rue Belleville per studiare al Turgot quelle arti della tecnica e del commercio che dovrebbero consentire di far fare alla loro vita il famoso salto di qualità. Parallelamente alla loro discesa, dal tredicesimo hanno cominciato a risalire i cinesi, che difatti tutto attorno al Turgot hanno aperto una serie dei loro ristorantini e negozietti sempre vuoti, imperscrutabili. Così sono pure gli allievi cinesi del liceo: imperscrutabili. Non danno problemi perché non portano segni di distinzione religiosa, etnica, eccetera. Ma fanno gruppo a sé, non parlano, non si sa cosa passi loro per la testa. Studiano e stanno zitti. I cinesi sono stati gli ultimi ad arrivare al Turgot, che per la maggior parte dei suoi centosessant'anni di storia era stato un istituto a maggioranza ebraica. Adesso non ci sono statistiche, perché chiedere agli iscritti la propria fede religiosa sarebbe contrario allo spirito democratico di cui sopra, però basta affacciarsi sul cortile interno durante una pausa delle lezioni per distinguere i diversi gruppi: i musulmani coi musulmani, gli ebrei con gli ebrei, i cattolici con i cattolici. E i cinesi coi cinesi. Un altro punto d'osservazione significativo sono i gabinetti, che vengono ridipinti a intervalli molto ravvicinati. Si notano le toppe fresche di colore, e i bidelli sono perennemente affaccendati a cercare di cancellare le scritte sui muri: Israel en force, Sieg heil, Shalom Israel, Allez Tunisie. C'è pure il disegno di un classico ebreo col nasone e la barbetta, e persino un Forza Italia. Si entra alle otto, e fuori ogni mattina si trovano la preside e la vicepreside in servizio d'ispezione. Inflessibili, madame Dupleix e madame Giammarinaro – nonno trapanese – stanno lì a sindacare sui centimetri di fronte scoperta, sulla sottilissima distinzione che passa fra una bandana e un velo islamico, che è stata oggetto di una apposita sentenza del Consiglio di Stato. Tirano via il cappuccio da rapper di un ragazzo e trovano un tarbush. Via il cappello, se vuoi entrare. A manifestare davanti l'ingresso del Turgot viene un ebreo ortodosso che ostenta un cedro e una palma; madame Dupleix prima prova a convincerlo a sgomberare e poi chiama la polizia definendolo, senza offesa, "quel signore col mazzo di insalata".Il liceo Turgot conosce un sacco di storie. La storia di Embarqua, una ragazza musulmana che è andata in viaggio di istruzione ad Auschwitz e al ritorno non riusciva più a smettere di piangere. Tanto piangeva che una sera un gruppo di suoi connazionali l'ha circondata per strada e le ha ordinato di smetterla di piangere per gli ebrei. Oppure la storia di due sorelle di origine pakistana e del loro padre lacerato. Da una parte l'orgoglio di avere delle figlie intelligenti, bravissime a scuola, e dall'altra la gelosia di vederle uscire tutti i giorni, frequentando forse anche ragazzi, tornando a casa sempre troppo tardi. A un certo punto il padre è scoppiato e le ha riempite di botte. Poi se ne è pentito, ma troppo tardi: la figlia maggiore è scappata di casa e non vuole più vederlo. Adesso tutta la famiglia si trova sotto psicanalisi. Il Turgot è una specie di Aleph. Come nel racconto di Borges è in quest'unico punto, nel terzo arrondissement, che si trova concentrato il mondo intero assieme a tutte le sue contraddizioni. Il centro del cortile di questa scuola coincide col centro dell'universo. E idealmente al centro del cortile c'è l'ombelico coperto di Halima. Lo disse e lo fece, Halima. Cominciò a venire con un foulard nero che le copriva orecchie e capelli. Madame Dupleix glielo contestò, ma lei difese la sua scelta. Faceva finta di cedere: si aggiustava il foulard scoprendo almeno un po' delle orecchie, ma appena usciva dall'ufficio di presidenza cercava subito uno specchio per rimetterlo al suo posto. Era una guerra snervante, tanto che a un certo punto a scuola venne convocata la madre. E così si venne a scoprire che la madre era tutt'altro che fanatica. Vestiva alla moda occidentale, era una donna moderna: ben felice che sua figlia fosse una buona musulmana, ma non tanto radicale da impuntarsi su una questione puramente formale. In fondo bastava che se lo togliesse poco prima di entrare a scuola. Ma Halima non voleva saperne. Più le facevano notare quant'era bella senza, più lei si incaponiva a indossare il velo. Esasperata, la madre a un certo punto cercò persino di strapparglielo di dosso, e questo non fece altro che radicare nella mente della ragazza la convinzione di essere una martire religiosa.Questo capovolgimento dei ruoli fra madre e figlia sarebbe stato impensabile, fino a dieci anni fa. Allora nessuna madre avrebbe cercato di far togliere il velo alla propria figlia per il semplice motivo che a nessuna figlia sarebbe venuto in mente di metterselo per andare a scuola, esponendosi alle prese in giro dei compagni. E questa è la prova provata che il progresso, specialmente per quanto riguarda l'emancipazione della donna, non è un'autostrada a tre corsie. Non è nemmeno un senso unico. Anzi: se si prova a mettere il divieto ci sarà sempre più gente che arriva contromano. È una strada sterrata, tortuosa, in salita. Si affrontano tornanti che fanno pensare in certi momenti di aver sbagliato strada. O forse davvero a un certo punto la storia del mondo ha preso il bivio sbagliato e ha cominciato a tornare indietro.Non c'è stato bisogno di un procedimento disciplinare per Halima. In febbraio ha deciso autonomamente di proseguire gli studi per corrispondenza, in modo da potersi vestire ogni mattina come meglio preferiva. L'hanno vista di recente, per strada, con addosso un abito lungo e nero che le lasciava scoperti solo gli occhi.

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Roberto Alajmo | 09/08/2006

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