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REMIX: LA CASA DENTRO

La casa del mio cuore è la penultima in cui ho vissuto. Questo risulta valido nel mio caso personale ma forse pure in generale, in quanto per la casa funziona come per l’amore: se ne scrive solo in assenza. Lettere, poesie e romanzi d’amore si scrivono quando l’amore non c’è; perché è finito o lontano o impossibile da vivere. Non si scrivono lettere d’amore alla persona con cui puoi parlare ogni giorno, alla persona che puoi amare in diretta, nella realtà quotidiana. Non si fa mai pratica di letteratura nei confronti della persona che stai abitando e che ti abita in un determinato momento.
Forse è un errore, e forse è l’errore che ci porta a perdere, assieme alle parole dell’amore, anche la cosa che le parole stanno a rappresentare: il sentimento amoroso. Ma a quanto pare è una regola insormontabile.
Perciò adesso sto scrivendo queste righe sulla penultima casa che ho abitato. Né mi sarei sognato di scriverne fino a sei mesi fa, quando sembrava la casa della mia vita. Allora si trattava della mia casa. My home, secondo la distinzione anglosassone fra house e home.
Mi limitavo a tornarci a dormire, a curarne la manutenzione quotidiana. Bisognava che funzionasse e che fosse funzionale. Certo, mi rallegravo quando un ospite mi faceva i complimenti per la vista dalla terrazza davanti al mare. Ma tutto finiva lì. Era la mia casa: stop.
Il fatto che fosse davanti al mare, certo, è uno dei motivi di nostalgia. Il mare suscita sempre nell’uomo pensieri profondi, sebbene spesso non sia possibile specificare di che genere: profondi. C’è tutta una mitologia dell’uomo davanti al mare. Quando ti trovi lì sei, in un certo senso, obbligato a riflettere.
La mia casa aveva una bella terrazza sul mare. Ero io, semmai, che mi piazzavo a leggere sempre sull’altra terrazza, più piccola e riparata, per sfuggire agli schiamazzi che provenivano dalla spiaggia. A ripensarci, è come rinunciare al proprio letto e sdraiarsi a dormire sul pavimento. Ma funzionava così. In due anni che ci ho vissuto, a mare avrò fatto sì e no una decina di bagni.
Il che suona strano, se si considera che dovevo solo attraversare la strada, direttamente in costume, fare il bagno e risalire a casa per la doccia nel giro di dieci minuti. Me ne fregavo, ecco tutto. Era una casa costruita nel 1951. L’ultima epoca in cui gli italiani hanno saputo produrre un’architettura abitativa media che risultasse esteticamente decorosa.
Era una casa grande, dove abitavo in affitto, molto luminosa, ben riscaldata d’inverno e sempre fresca d’estate, benedetta dal soffio della brezza marina.
Alla luce della ragione potrei semmai questionare sugli infissi, rosicchiati dalla salsedine. Ma adesso tutti gli inconvenienti di quella casa sono sfumati nella memoria. Proprio come succede per i difetti della persona che hai amato e che hai perduto forse anche per colpa tua.
C’è un grumo di dolore al petto, dalle parti del cuore, dietro la perdita di quella casa. Un dolore privato, che qui non importa raccontare. Ma adesso posso dire con certezza che la fitta più cocente riguarda proprio il mare di fronte; anche se quando l’avevo a disposizione lo schifavo un po’, con l’indecente generosità dei ricchi che lasciano mance troppo alte al ristorante.
Il mare c’era. Io sapevo che c’era, e anche lui sapeva che io c’ero. Lo guardavo, mi guardava. Tanto bastava a respirare meglio. Ecco, ora che ci rifletto: non era una questione cardiaca, ma di respiro. Non era la casa del mio cuore. Era la casa dei miei polmoni.
E adesso che l’ho perduta mi pare quasi di non riuscire più a respirare.

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Roberto Alajmo | 09/08/2013

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