È STATO IL FILM
(Da Repubblica)
Amici, parenti o conoscenti, la domanda degli ultimi mesi è stata sempre quella: “L’hai visto? Ti è piaciuto?”. Sì, l’ho visto e mi è piaciuto. Mi è piaciuto molto. Non dovrei dirlo, perché sono l’autore del libro da cui è tratto, ma “E’ stato il figlio” di Daniele Ciprì mi è piaciuto moltissimo. Non dovrei dirlo per una forma di understatement, forse. Ma mi faccio sfrontato perché ho l’alibi di essere praticamente estraneo alla produzione del film, e quando l’ho visto per la prima volta mi sono sforzato di assumere lo sguardo ingenuo del semplice spettatore che va al cinema dopo aver letto il libro. Unica differenza rispetto al lettore comune: avendolo scritto, conoscevo il libro particolarmente bene.
Avendo co-firmato il soggetto del film mi aspettavo la cornice, ma non potevo immaginare quali colori avrebbe adoperato Ciprì per rendere l’idea del romanzo. Ora posso dire che si piange e si ride in continuazione. Non so se leggendo il libro. Di sicuro vedendo il film. Ogni adattamento è un tradimento, ma se va bene è un tradimento felice, che getta luce sul rapporto precedente e lo fortifica. Tanto più è vero per “E’ stato il figlio” che fra i miei romanzi considero il più popolare, almeno in potenza.
Ritrovare i personaggi sullo schermo è stato emozionante e gratificante. Ciprì mi ha spiegato e mostrato cose che nel libro c’erano a mia insaputa. Ma tutte queste belle cose le so adesso che il film ha visto la luce. Prima c’è stato un lungo travaglio produttivo, anni in cui i diritti sono stati comprati dalla Rai e ceduti a un impresario e a un altro regista che non hanno mai avuto la cortesia di fare una telefonata. Anzi una sì: l’impresario mi ha chiamato da un numero riservato facendo un sacco di complimenti, quasi senza lasciarmi il tempo di ringraziare. Quando ho posto la prima domanda sul cast ha messo in scena una gag telefonica degna della miglior commedia all’italiana: “Oh… scusa ho appena avuto un piccolo incidente, ti richiamo subito”. Mai più risentito.
Poi il trattamento a quanto pare non era all’altezza, perché il progetto è naufragato. Sono passati altri mesi, anni, fin quando è spuntato il nome di Daniele Ciprì. E figuriamoci se non ero d’accordo. Lui sì: conosce il telefono e le regole della correttezza professionale. La prima chiamata, complimenti reciproci a parte, è stata un po’ sulle uova. Senza dirlo apertamente cercava di capire se io fossi interessato/intenzionato a partecipare alla sceneggiatura. Su questo punto l’ho senz’altro rassicurato. L’autore del libro in sede di sceneggiatura è come la suocera in viaggio di nozze: anche la più simpatica è meglio che stia a casa. Quando gliel’ho detto, attraverso la cornetta ho percepito il sospiro di sollievo del mio genero-regista, che però mi ha avvertito: “Guarda che cambierò molte cose”. “Fai quello che vuoi, basta che mi fai avere due biglietti per la prima”.
Non è solo questione di fiducia nel regista. È proprio che un autore risulta troppo legato al romanzo come lui lo ha concepito, e non possiede l’elasticità mentale che serve per adattarlo al cinema. Anche se riesce a staccarsi dall’idea originale, la sua semplice presenza rischia di essere una zavorra per gli altri sceneggiatori, che potrebbero frenare la loro immaginazione per malinteso ossequio nei confronti dell’inventore della storia. Sono le regole del gioco, che piaccia o no, e bisogna rispettarle. Nella vita forse mi capiterà di scrivere una sceneggiatura, ma non sarà tratta da un libro che ho scritto io. Quando ha l’avventura di vedere al cinema un suo romanzo, uno scrittore può solo farsi il segno della croce, votarsi al Dio delle Trasposizioni e sperare di finire in buone mani.
Ora che il film sta per affrontare il giudizio di pubblico e critica posso dire solo che mi è andata bene. La fiducia in Daniele Ciprì era ben riposta, perché il film è diverso (è un film) dal libro (che è un libro) ma tutte le divaricazioni sono concepite nell’identica tonalità del modello originale, intrecciando i generi comico e tragico fino a renderli inestricabili. In un paio di momenti ho pensato: questo potevo mettercelo io, nel libro.
Di sicuro, come minimo, è un film diverso. Per trovare una novità del genere nel panorama del cinema italiano bisogna ritornare al tempo di “Tano da Morire”. La chiave scelta da Ciprì è di caricare i personaggi a molla, facendoli recitare come se si trattasse di un cartone animato. Come se si trattasse dei Simpson. Toni Servillo in particolare - sempre bravissimo, ma mai così divertente - è una specie di Homer Simpson.
I Simpson a Palermo. Quando ho scritto il romanzo ancora non lo sapevo, ma era questo che volevo fare: i Simpson a Palermo. Ora che ho visto il film, finalmente l’ho capito.

Roberto Alajmo | 29/08/2012
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