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CUORE DI MADRE


UN GRANDE FUTURO ALLE NOSTRE SPALLE

(Da ANIMAls, la rubrica "2012")

Man mano che la fine del mondo si avvicina, fervono i preparativi per il grande giorno. Si registra un evidente infittirsi del calendario delle catastrofi. Archiviati i terremoti cileno e haitiano senza che nessuno sappia più nulla di quelle popolazioni atterrite, il programma preliminare procede senza soluzione di continuità. Accantonato pure il deludente vulcano islandese dal nome impronunciabile - che ha procurato parecchi disagi e danni economici alle compagnie aeree, ma nemmeno una vittima -, si è preferito passare a un genere diverso e parecchio più realistico: la catastrofe per cause umane.
Ammettiamolo: un’apocalisse per sole cause naturali sarebbe molto deludente. Un gigantesco meteorite in rotta di collisione con la Terra o un disastroso spostamento dell’asse terrestre che portasse il pianeta fuori dalla sua orbita consueta avvicinandolo o allontanandolo troppo dal Sole sarebbero ipotesi insoddisfacenti, che non renderebbero merito al trattamento che il genere umano ha riservato negli ultimi decenni al suo habitat naturale.
Ecco allora spuntare una molto più esaltante e probabile catastrofe per colpa. La prova generale si è tenuta nel golfo del Messico, con il collasso della piattaforma petrolifera BP e la conseguente emorragia di petrolio che è andata a infestare la costa incontaminata.
Questa sì che sarebbe una fine del mondo degna di noi, del nostro status di benessere. Oltretutto molto ben rappresentabile nei Tg di prima serata. Commovente e fatale, almeno per il momento, soltanto per i poveri animali. Gli uccelli, le tartarughe, così gentili da venire a morire incatramati sulla spiaggia, a favore di telecamera. Così fotogenici, in una ripresa rasoterra, con l’onda nera sullo sfondo che si infrange sulla sabbia.
Molto suggestive anche le immagini dei volontari in tuta e stivali di gomma che si adoperano per limitare i danni, coi pochi risultati possibili, lavorando quasi a mani nude. Per alimentare la drammaturgia di un possibile colossal cinematografico c’è pure la corsa contro il tempo per turare la falla, i diversi tentativi di fermare la fuga di petrolio adoperando tecnologie che si rivelano man mano inadeguate. Nell’inquadratura successiva c’è un palombaro che emerge dall’oceano semiasfaltato, si toglie il casco e scuote la testa: anche questo tentativo non ha funzionato.
Un’apocalisse di questo genere comporterebbe innegabili vantaggi morali. Consentirebbe un dibattito interno al genere umano, che si potrebbe suddividere molto chiaramente in buoni e cattivi, lasciando libero lo spettatore di iscriversi idealmente a uno dei due gruppi: e autoassolversi, con ogni probabilità.
I cattivi, quelli della compagnia petrolifera hanno subito dichiarato di essere intenzionati a pagare i danni all’ambiente, e questo ha tolto un po’ di mordente alla trama. Di solito, in questo genere di film, la multinazionale cattiva nasconde le prove e nega ogni addebito, salvo poi lasciarsi smascherare dall’Eroe Buono. Ma tant’è: la realtà si rivela talvolta drammaturgicamente inadeguata.
Del resto non bisogna dimenticare che si trattava soltanto di una prova generale. Una ipotesi come un’altra di suicidio planetario: le vene del mondo recise ai polsi, e il dissanguamento susseguente. Iscriviamo al registro delle ipotesi anche questa, e proseguiamo l’avvicinamento al radioso dicembre del 2012.

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Roberto Alajmo | 05/07/2010

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