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UNO SPETTACOLO MIO

(Per una serie di motivi troppo lunghi da spiegare qui, mi piacerebbe che tutte le persone che mi vogliono bene vedessero questo spettacolo. Qui sotto ci sono quindici righe che dovrebbero contribuire a renderne l'idea)
C’era nei primi anni della fotografia un’usanza macabra, legata al culto dei morti. Subito dopo il trapasso il cadavere veniva messo in posa e fotografato, spesso assieme ai suoi familiari. A vederle oggi queste immagini virate seppia risultano spiazzanti, comiche o raccapriccianti, a seconda dell’occhio di chi guarda.
Spiazzante e comica (raccapricciante speriamo di no) vorrebbe essere questa black comedy in cui vivi e morti si mescolano, interagendo fra loro in una maniera che in Sicilia conosciamo bene visto che, come nella Macondo di García Márquez, i nostri antenati hanno una spiccata propensione alla persistenza.
Il fatto di cronaca originario è un pretesto per esplorare una lingua teatrale ispirata al siciliano ma che dal dialetto mutua più lo scardinamento sintattico che la vulgata lessicale: i personaggi parlano una lingua che è inventata, tutt’altro che naturalistica, diversa sia da Martoglio sia da Scaldati.
Ma c’è poi un’altra finalità, tutta morale, che riguarda i temi del rancore e del perdono, esplorati con un arsenale di ragionamenti che a tratti può sembrare pirandelliano. Anche qui c’entra molto quest’isola dove secondo la convinzione comune “chi nasce tondo non può morire quadrato”. Non è così: il destino può deragliare in qualsiasi momento, se siamo abbastanza in gamba da volerlo.

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Roberto Alajmo | 09/01/2019

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