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CUORE DI MADRE


PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA. RACCOGLIERE LA SFIDA.

(Questo pezzo con questo titolo è uscito ieri sul Corriere della Sera, per essere quindi letto da un pubblico "nazionale". Vorrei chiedervi una piccola interazione: pensate che questo pezzo sia sbilanciato? Che rappresenti un modo di schierarsi? E per quale fazione? Vi chiedo di essere sinceri. Io ascolterò fino alla fine i vostri commenti e prenderò la parola solo alla fine).
Adesso c’è il bollo del consiglio dei ministri, su proposta di Franceschini, ma a Palermo litighiamo già da mesi sulla nomina della nostra città come capitale della cultura per il 2018. Litighiamo, perché su qualsiasi argomento noi litighiamo, specialmente su tutto quel che riguarda l’immagine di sé che la città mostra all’esterno. Una vocazione causidico-pirandelliana che porta in continuazione a spaccarsi e spaccare il capello in quattro. Escluderei che a Pistoia, capitale uscente, si sia discusso tanto e tanto accanitamente prima ancora che la nomina prendesse consistenza. Le due fazioni cittadine contrapposte sono quelle tradizionali, orgogliosi versus sarcastici, quest’ultima categoria indicata localmente con un’espressione a sua volta sarcastica: “nemici della contentezza”. La prima fazione, riconducibile grossomodo ai simpatizzanti dell’attuale amministrazione comunale, ha accolto con soddisfazione la nomina di Palermo capitale della cultura. La seconda fazione, riconducibile agli avversari del sindaco Leoluca Orlando, esprime il suo sarcasmo mettendo in dubbio che la città sia all’altezza del ruolo (frase chiave: altro che capitale della cultura, capitale della munnizza).
In realtà, nessuno oggi può dire se Palermo sarà all’altezza o meno. Se lo è stata Pistoia, ci sono speranze che anche noi potremo almeno non sfigurare. La designazione in sé significa poco, e Palermo se la merita se non altro per la sedimentazione di culture diverse che rappresenta da secoli a questa parte, a prescindere da chi la amministra pro tempore. La sua essenza di città controversa e imbastardita non è una controindicazione, anzi: gli artisti maledetti hanno sempre posseduto fascino in più. I visitatori, specialmente in tempi recenti, tendono a rimanere sbigottiti per i vividi chiaroscuri che riscontrano camminando per le strade. I palermitani benintenzionati anzi hanno spesso il compito, nelle conversazioni con gli ospiti che vengono dal continente, di ridimensionare gli entusiasmi per spiegare che la maniera migliore di apprezzare la bellezza di Palermo è avere in tasca il biglietto di ritorno con destinazione una città meno problematica. Palermo sa essere molto seduttiva, sul breve periodo, mentre magari qualche problema può sorgere quando si sceglie di trascorrere qui l’intera esistenza.
La designazione a capitale italiana della cultura rappresenta in ogni caso un’opportunità astratta, che andrà riempita di contenuti, una cornice che ancora deve trovare collocazione. È innegabile che almeno negli ultimissimi anni si riscontri un fermento culturale in forma magari gassosa, e proprio un’occasione del genere può servire a far sedimentare mineralmente questi fermenti finora sporadici. La strada certo è lunga, non sarà diritta, ma di sicuro è stata intrapresa.
I presupposti per trasformare questa carica onorifica in una reale possibilità di crescita ci sono, a cominciare dal fatto che proprio il prossimo anno il capoluogo siciliano ospiterà Manifesta, la biennale d’arte contemporanea itinerante che è stata accolta ultimamente da Zurigo.
E poi c’è un altro sintomo che lascia ben sperare. Un mecenate forestiero, Massimo Valsecchi, dopo aver girato mezzo mondo, ha comprato un edificio settecentesco davanti al mare, Palazzo Butera, lo sta restaurando a spese proprie per trasformarlo in un polo culturale e trasferire a Palermo la sua straordinaria collezione d’arte. Un regalo insperato, in un meridione dove trovare uno sponsor privato per la cultura è impresa molto più impossibile che improbabile.
Quando i palermitani smetteranno di accapigliarsi fra favorevoli e contrari, rischiano di ritrovarsi a vivere in una città che avrà ancora la sua zavorra di munnizza, ma sarà almeno un po’ migliore di com’era.

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Roberto Alajmo | 23/07/2017

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