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IL DOLORE PERFETTO

Io non lo conoscevo bene.
Francesco Foresta aveva qualche anno meno di me ed eravamo cresciuti in parallelo giornalistico. O meglio: lui era cresciuto. Io ero sopravvissuto.
Non c'eravamo mai frequentati. Ma negli ultimi anni ci sorridevamo da lontano.
Posso dire di aver seguito la sua malattia attraverso quel covo di guardoni che certe volte diventa facebook, dal poco che lui e Donata pudicamente lasciavano trapelare.
In questi casi gli amici ti si stringono accanto, gli estranei invece devono tenersi a distanza.
Insomma: mi dispiaceva da lontano, e ci pensavo. Pensavo: poteva capitare benissimo a me. Era quella specie di dolore narcisistico che prende quando muore qualcuno più giovane di te.
Poi sono andato nella loro casa, dove non ero mai stato.
E lì c'erano le fotografie.
Dopo le condoglianze mi sono messo a guardare le fotografie che erano appese alle pareti ed esposte sui mobili. Erano soprattutto foto delle vacanze, in bianco e nero oppure a colori.
Non mi vergogno di dire che ho pianto. Guardando le fotografie ho pianto per la morte di una persona che praticamente non conoscevo.
Ho provato a immaginare quanto erano stati felici assieme, Francesco e Donata, e sono rimasto atterrito da quella felicità che aveva tutta l'apparenza di essere stata perfetta.
Atterrito proprio per la perfezione di quella felicità.
Perché guardando le loro fotografie ho capito che esiste una equazione: tanto perfetta la felicità, quanto perfetto il dolore.

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Roberto Alajmo | 11/01/2015

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