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REMIX: CONTRO LE PREFAZIONI

(Dal Corriere della Sera)
Chiama un piccolo editore: “Te la sentiresti di scrivere una prefazione per (un romanzo, un saggio, un racconto non abbastanza lungo per fare volume a sé stante)?”. Se a farlo è l’editore si presume che, in quanto tale, possa capire e metabolizzare meglio un rifiuto. Anche così, negandoti rischi di passare per uno che non vuole aiutare la piccola editoria, ma insomma: puoi sempre dire che non hai abbastanza tempo perché devi recuperare il rapporto con tuo figlio stando un po’ con lui. L’argomento che di solito mette fine a qualsiasi discussione: tengo famiglia.
Ma quando a chiedertelo è una persona che conosci, rifiutarsi diventa più difficile, perché lui la mette sul piano dell’amicizia. (Senza contare che se ti conosce sa che con tuo figlio il rapporto fila liscissimo). In entrambi i casi, comunque, resta sottintesa l’aggravante del gratis. Perché nel mondo dell’editoria non è che manchi il lavoro. Lavoro ce n’è tantissimo. Quelli che mancano sono i compensi. Esistono molte occasioni per leggere o scrivere gratis. Ma la prefazione va oltre il leggere gratis o lo scrivere gratis. È la combinazione delle due cose: leggere e scrivere gratis in un colpo solo. Eppure esistono siti specializzati che presentano tanto di tariffario: per una prefazione un autore a proprie spese deve spendere 48 euro, e prevedere 15 giorni lavorativi per la consegna. E s’intende: la prefazione è anonima. Un breve scritto anonimo in cui si attesta che lui è effettivamente bravo come sostiene di essere.
Quella economica sarebbe una motivazione più che seria per rifiutare di scrivere una prefazione. Se però c’è di mezzo l’amicizia la questione si complica, perché tu ci tieni a non sembrare scostante. Allora ti schermisci, millanti una modestia che non possiedi per sostenere che non sei all’altezza. Ma la verità è che la prefazione è un genere deleterio in sé: quasi offensivo che qualcuno te ne chieda. Rappresenta una forma di padrinaggio che, agli occhi del lettore, dovrebbe apparire di per sé sospetta. Perché questo autore ha bisogno di farsi presentare da qualcun altro? Non gli sembra adeguato quel che lui stesso ha scritto? Perché non fa allora come Stephen King, che le prefazioni ai suoi libri se le scrive da solo?
Ormai solo editori sprovveduti commissionano prefazioni. Tutti gli altri sanno che la prefazione fa immediatamente assumere al libro un retrogusto provinciale. Qualcuno dirà che si tratta di un semplice orpello: se un lettore non vuole leggerlo è legittimato a saltare qualsiasi preambolo. Ma il problema non è l’ingombro tipografico. Il problema è etico ed estetico. Se è ammissibile la prefazione per un autore classico, che possa servire a storicizzarne l’opera, grottesca risulta la prefazione di un autore vivente.
In questo caso è l’equivalente di un girello per bambini, una stampella per libri che non riescono a camminare sulle proprie gambe. Avverte del senso di quel che segue, e ha quindi la stessa funzione raggelante che nelle barzellette è rappresentata da una spiegazione o dai puntini di sospensione che precedono la battuta. Quelli avvertono che è arrivato il momento di ridere. La prefazione, invece, rappresenta l’intimazione a farti piacere il libro che hai fra le mani. Il che, a prescindere da ogni altra valutazione, è un ottimo motivo per non farselo piacere.

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Roberto Alajmo | 17/11/2017

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