CHI-SE-NE-FREGA?

Appena prende la penna in mano o apre un file di word, ogni scrittore si trova davanti un ostacolo preliminare che dovrebbe risultare bloccante.
Immaginiamo un'enorme insegna a caratteri di pietra, un baluardo che si frappone fra lo Scrittore e la Scrittura proprio quando tutto sembrerebbe diventato facile - la penna sul foglio bianco, le dita sulla tastiera. La domanda insormontabile è: CHI SE NE FREGA?
Seppure posto con villania, si tratta un interrogativo etico-ecologico che dovrebbe imporre pudore e silenzio a ogni scrittore. Come forma di igiene, proprio.
Se si scrive, infatti, è sempre nella presunzione di raccontare cose che importino a qualcuno. E, superata l'adolescenza, qualsiasi individuo deve almeno essersi fatto venire il dubbio che il mondo andrebbe, andrà avanti anche senza sapere niente di lui.
Questo in generale.
Per quanto ne possa capire io, la sfida maggiore per uno scrittore è quella di esporre a rischio di Chi se ne frega addirittura i materiali della propria autobiografia. Se prevalesse il buonsenso, nessuno si avventurerebbe mai su questo terreno, sul quale sono destinate a cadere tutte le migliori intenzioni. Quasi tutte. A voler essere razionali tanto varrebbe immaginarle tutte, destinate al fallimento. Ma la letteratura esiste ancora perché nessuno accetta di muoversi su un piano puramente razionale.
Novecentonovantanovemila volte, l'autobiografismo è cacca. Ma quando, una volta su un milione, per motivi imperscrutabili, la sfida viene vinta, allora si ottiene il meglio della letteratura mondiale. Se uno scrittore dice Io, e intende veramente IO, allora i casi sono due: o è un genio o è un cretino.
Non sono molti gli scrittori italiani che negli ultimi trent'anni hanno avuto il coraggio di infilare apertamente se stessi in una propria narrazione. Un po' Francesco Piccolo, un po' Antonio Pascale, di sicuro qualcuno che non ho letto e non conosco. Ma non esiste una corrente, nemmeno un rigagnolo di scrittori che osano dire io (o pronomi equivalenti) nei propri romanzi. E questo mi pare significativo di come l'Italia, anche in questo campo, sia un paese anchilosato, dove il rischio viene considerato comunque azzardo. Non sapendo come muoversi, si rimane immobili ad aspettare che morte sopraggiunga.
Eppure, per capire che il rischio paga, basta sollevare lo sguardo fino a superare di poco i confini nazionali e imbattersi in uno dei più grandi scrittori contemporanei, Emmanuel Carrére, che da molti romanzi a questa parte si spinge a raccontare non una storia, e nemmeno la Storia, ma la storia di lui stesso alle prese con la storia, maiuscola e minuscola. Vale per tutti i suoi libri a partire da "L'avversario" fino a "Limonov". Me ne frega se Carrére racconta di se stesso che racconta la biografia di un avventuriero russo bipolare? In partenza no. Ma alla prova dei fatti, al contrario: me ne frega moltissimo.
Certo, a fronte di un immenso Carrére, esistono migliaia di dilettanti che vanno allo sbaraglio vomitando sulla carta la propria esistenza, senza filtri di alcun tipo. Vale la pena di correre il rischio? Non so. Di sicuro però è il rischio l'unico vero motivo per cui vale la pena di alimentare un sistema editoriale che altrimenti si muove solo sulle strade della consuetudine.
L'unico modo per non vivere letterariamente strisciando: alzarsi e correre. Anche a costo di morire, se proprio bisogna.



Roberto Alajmo | 22/07/2014 | Letto [4890] volte

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