"Chi è gay può dire frocio, ma chi non è frocio deve dire gay"
(Anonimo politicamente corretto)
Era più o meno la prima metà degli anni Ottanta, quando mi ci hanno portato. Il teatro della mia città era chiuso da oltre dieci anni, e sarebbe rimasto chiuso ancora per molto tempo. Però era agibile la parte degli uffici e della sovrintendenza, e questo faceva somigliare il teatro a un enorme corpaccione del quale veniva utilizzata solo una minima parte: e il resto si gettava via. Un po come catturare una balena per prelevare solo lo spermaceti, e ributtare in mare la carcassa. Uno spreco. A pensarci bene, quel teatro utilizzato a scartamento ridotto era una bella metafora della città nella sua interezza. Una città specializzata nel buttare via il meglio di sé, e adattarsi a vivere col poco che le restava. Insomma, mi ci hanno portato. Non negli uffici: negli uffici mi capitava di andarci, ogni tanto. Ma dagli uffici non si aveva la percezione del resto. A vederli, erano normali uffici. Un po giallini di vecchiaia, ma normalissimi uffici. In quegli uffici lavorava come funzionario un mio amico, che andavo spesso a trovare, e che una volta mi ha chiesto, di punto in bianco: - - Lo hai mai visto? Lo vuoi vedere? Me lo ha chiesto proprio così, col soggetto sottinteso. E io ho capito lo stesso, ho capito subito che voleva portarmi dentro. Io dentro non cero mai stato. Ero troppo giovane per andarci quando il teatro era aperto, e poi non era stato più possibile. Gli amici più fortunati, che quellesperienza erano riusciti a farla, se ne approfittavano nella conversazione. Dicevano: - - Ah, ma tu non sai che significa sentire unOpera in un Teatro dOpera. Lo dicevano in un modo tale che io sentivo rimbombare tutte le maiuscole di quellespressione: Opera, Teatro dOpera. Tanto che alla lunga quei discorsi sulle differenze fra un teatro e un altro mi avevano un po stufato. Insomma, il mio amico quella famosa volta non ha avuto bisogno di aspettare la mia risposta per sapere che no, non lo avevo mai visto. E soprattutto che sì: lo volevo vedere. Si è alzato, si è avviato e io lho seguito. Già il tragitto mè parso strano. Non capivo i corridoi che stavamo percorrendo, e quindi difficilmente sarei stato capace di ritornarci da solo. Era come se mi avesse bendato, e io tutto quel tragitto lo stessi facendo alla cieca. Fin quando, a un certo punto di un certo corridoio, ha aperto una porta di ferro sulla sinistra, e ricordo la sorpresa di scoprire che non era nemmeno chiusa a chiave. Chiunque, a sapere che porta era, poteva entrare. Anche questa mi pare, col senno di poi, una piccola metafora che riguarda i teatri chiusi: una porta esiste di sicuro, e non è nemmeno chiusa a chiave. (SEGUE)